È in libreria per Adelphi l’edizione integrale del Diario (1941-1943) di Etty Hillesum. Chi è questa scrittrice e intellettuale ebrea morta a 29 anni ad Auschwitz e sconosciuta ai più, ma che meriterebbe di essere riscoperta? Tempi ne parlò già anni fa, in occasione della pubblicazione (allora parziale) dei suoi scritti. Vi riproponiamo quegli articoli con alcuni brani tratti dalDiario e dalle Lettere. Per chi voglia ulteriormente approfondire, oggi su Avvenire Marina Corradi (ndr: lo pubblico qui sotto) ha scritto un articolo su di lei.
«Otto quaderni fittamente ricoperti da una scrittura minuta e quasi indecifrabile – e da allora non ho mai distolto la mente da ciò che vi ho trovato: la vita di Etty Hillesum. Questi quaderni narrano la storia di una donna di Amsterdam di ventisette anni. Abbracciano tutto il 1941 e il 1942. Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma». Così scrive J.G. Gaarlandt nella sua introduzione alla prima edizione inglese (1983) del Diariodella giovane ebrea. Diario che, per tramite dell’amica Maria Tuinzing, la stessa Etty, poco prima della sua deportazione ad Auschwitz (dove morirà il 30 novembre 1943, appena due mesi dopo il suo arrivo al campo di sterminio che inghiottì l’intera famiglia Hillesum: i genitori e un fratello di Etty vennero trucidati dai nazisti il giorno stesso del loro arrivo in Polonia, l’altro fratello, Jaap, morì sulla strada del ritorno ad Amsterdam) aveva affidato allo scrittore Klaas Smelik, che lo studioso olandese Gaarlandt conobbe nel 1980 e di cui iniziò la pubblicazione in lingua originale l’anno successivo.
Etty scrisse Diario e Lettere negli anni dell’occupazione nazista dell’Olanda e durante il suo soggiorno al campo di concentramento di Westerbork, dove furono internati gli ebrei olandesi. Tutti i costi per la costruzione e il mantenimento del campo furono sostenuti con la confisca dei beni e delle proprietà degli ebrei. Da Westerbork transitarono e da lì furono condotti ai campi di sterminio su 102 treni di deportati, 107mila ebrei olandesi. Ne sopravvissero 5200.
27 febbraio, venerdì mattina, le dieci…
Mercoledì mattina presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti eguali: eravamo tutti nello stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania, come quelli che venivano interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù con un’espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: «Mani fuori dalle tasche per favore…», ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti. Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato improvvisamente: «Che ci trova di ridicolo?». Avrei risposto volentieri: «Niente, tranne lei», ma per diplomazia m’è parso meglio lasciar stare. «Lei ride tutto il tempo», continuava a urlare lui. E io in tutta innocenza: «Non me ne accorgo proprio, è la mia faccia normale». E lui: «Per favore non dica scemenze, vada fffuori», con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai. Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta. In fondo, io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno – anzi, che mi facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? (…)
Di sera, le nove…
Ci è stato proibito di passeggiare sul Wandelweg, ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciò nonostante, quanto spazio in cui si può ancora stare e essere lieti e far musica e volersi bene. (…)
Mercoledì mattina, le sette e mezzo
È così trascinante e ardente, il mio Agostino-a-stomaco-vuoto. Un raffreddore di testa ora non mi fa più perdere completamente l’equilibrio, però non è un piacere. Buon giorno, scrivania disordinata! (…)
Sabato sera, mezzanotte e mezzo…
Certo che ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. (…)
3 luglio 1942…
Un po’ più tardi. E se anche non avessi avuto niente da questa giornata – neppure, da ultimo, questo positivo e aperto confrontarmi con la morte – non dovrei dimenticare quel soldato tedesco kasher (persona come si deve, per bene, ndt), che si trovava al chiosco col suo sacco di carote e cavolfiori. Prima, sul tram, le aveva messo in mano un biglietto, e poi c’era stata quella lettera che dovrò ben leggere una volta: gli ricordava tanto la figlia di un rabbino che lui aveva potuto ancora assistere giorno e notte, sul suo letto di morte. E stasera è andato a farle visita. E quando Liesl me l’ha raccontato, ho saputo all’istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. Ci saranno ancora altri volti su cui potremo leggere e capire qualcosa. E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall’altra e si deve pregare per tutti. Buona notte. (…)
Venerdì…
Un giorno pesante, molto pesante. Un “destino di massa” che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. È diventato ormai un “destino di massa” e si dev’essere ben chiari su questo punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade. (…)
23 luglio, giovedì sera, le nove
Le mie rose rosse e gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quell’inferno, hanno continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi. Ieri sera, dopo quella lunga camminata nella pioggia, e con quella vescica sotto il piede, sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno. Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio. Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio. (…)
Mercoledì mattina, le nove (aspettando dal dottore)
Spesso, a Westerbork, quando andavo in giro con quei chiassosi, litigiosi e fin troppo attivi membri del Consiglio Ebraico, mi veniva da pensare: su, lasciatemi essere un pezzetto della vostra anima. Lasciatemi essere la baracca in cui si raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io non ho bisogno di far così tanto, io voglio solo esserci. Lasciatemi essere l’anima in questo corpo. E prima o poi trovavo in ognuno di loro un gesto o uno sguardo più nobile, di cui credo fossero appena coscienti. E me ne sentivo il custode.(…)
Domenica sera…
Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore. (…)
«Dopo la guerra, due correnti attraverseranno il mondo: una corrente d’umanesimo e un’altra di odio». Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio.
23 settembre…
Vedi, Klaas: quell’uomo era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui avrebbe potuto essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva tanta pena. Riesci a capirci qualcosa? Non aveva mai contatti amichevoli coi suoi compagni, e se questo succedeva agli altri lui li guardava di sottecchi con un’espressione così affamata (potevo vederlo e osservarlo in continuazione, in quel luogo si viveva senza muri). Più tardi, un collega che lo conosceva da anni mi aveva raccontato alcuni particolari della sua vita. Nei primi giorni della guerra si era buttato in strada dal terzo piano ma non era riuscito ad ammazzarsi, come doveva pur essere sua intenzione. In seguito ci aveva riprovato, questa volta sotto una macchina, ma anche questo tentativo era fallito. Poi aveva trascorso qualche mese in un istituto per malattie mentali. Era paura, tutta paura. Era un giurista così brillante e acuto e nelle discussioni accademiche aveva sempre l’ultima e decisiva parola. Ma nel momento decisivo era saltato giù dalla finestra. Sua moglie doveva camminare per casa in punta di piedi e lui faceva delle scenate ai figli atterriti. Ma faceva tanta, tanta pena. Che vita è mai questa? (…)
12-10-42…
Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di roccia. È una cosa molto severa e dura in senso vetero-testamentario, ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie ciglia. (…)
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
(Qui si interrompe il Diario di E.H.)
Dalle Lettere di E.H.
A Maria Tuinzing, 2 settembre 1943
…Io scrivo di nuovo un po’ di tutto alla rinfusa e poche cose buone. Ogni tanto qui si è terribilmente stanchi ed è proprio così che mi sento stamattina, ma questa lettera deve partire tra poco, quindi scarabocchio ancora qualcosetta. Potete spedire o recapitare le lettere di Mechanicus che accludo? È grazie a lui che posso far partire questa mia. Tutta la famiglia di Jopie è ora in ospedale, si fatica a tenere in vita il bimbetto più piccolo.
Come eravamo giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria, ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria – devo ritornare sempre su questo punto. E se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani, Maria. Qui non sono affatto all’altezza della situazione, non riesco a “far fronte” a tutte le persone che vogliono coinvolgermi nei fatti loro, spesso sono troppo, troppo stanca. Per favore, guarda una volta Käthe con occhi amichevoli da parte mia, e accosta la tua guancia a quella di papà Han, anche da parte mia. E state ancora bene insieme? E mi saluti la mia cara scrivania, il più bel posto di questa terra? E Swiep e Wiep e Hesje e Frans e gli altri? Ti guardo un momento in faccia, mia cara, e non dico più molto.
Etty
A Christine van Nooten, 7 settembre 1943
Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, mamma e papà molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure.
Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro.
Etty
(Questa è l’ultima lettera che si conosca di Etty. Segue la deportazione ad Auschwitz dell’intera famiglia Hillesum. Papà, mamma e il fratello Mischa vengono trucidati lo stesso giorno del loro arrivo in Polonia.Secondo un’informativa della Croce Rossa Internazionale Etty è morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943).
Fonte: Tempi
Etty Hillesum, la Shoah e la Croce
L’edizione integrale in italiano del Diario (1941-1943) di Etty Hillesum che esce oggi per Adelphi è un momento importante nella riscoperta di questa giovane ebrea morta a Auschwitz. Una figura straordinaria ma, almeno da noi, ancora da molti non conosciuta; benché chi la legga finisca spesso con l’innamorarsene.
Nata nel ’14 in Olanda, la Hillesum studia e vive nella Amsterdam occupata dai nazisti. Ebrea ma non praticante, frequenta ambienti intellettuali non credenti, e conduce, come dirà con le sue parole, «una vita libera e sregolata». L’incontro con lo psicoterapeuta ebreo Julius Spier, fuggito dalla Germania nazista, la riconduce alla lettura dell’Antico Testamento, e alla domanda di un Dio di cui, impara da Spier, bisogna avere «il coraggio di tornare a pronunciare il nome». Ma la storia incombe: la persecuzione in Olanda cresce, gli ebrei devono portare la stella gialla, si pianifica la deportazione. Questa pressione tragica sembra agire su Etty come un catalizzatore che in pochissimi anni la trasforma, anzi la trasfigura. Mentre avverte che il nemico vuole l’annientamento degli ebrei, misteriosamente Etty cresce, in un dialogo sempre più serrato con un Dio al quale non chiede la propria salvezza, ma di condividere il destino del suo popolo, e di farsene voce. La ragazza che scrive da Westerbork, il campo di raccolta degli ebrei olandesi, sembra già molto distante dalla fanciulla che lietamente passava da un uomo all’altro, vorace di amore e di vita. In lei, che muore ad Auschwitz nel settembre 1943, a 29 anni, si è compiuta una sbalorditiva metamorfosi.
Per questo a chi non ha mai letto la sintesi del Diario pubblicata da Adelphi negli anni ’80 ci verrebbe da consigliare di cominciare la conoscenza della Hillesum dalle Lettere, pure già edite da Adelphi, in un percorso cronologico inverso. Giacché le Lettere sono le ultime cose scritte da Etty a Westerbork, fino al giorno della deportazione in Polonia; pagine struggenti, tese, dal fondo della ferocia e del male, ad affermare la fiducia in un Dio, nonostante tutto, padre. In un Dio per il quale, in tanto strazio, la giovane ebrea si sente in dovere di «cercare un tetto»; e quel tetto è lei stessa, che vorrebbe accogliere in sè la paura e la disperazione di vecchi, madri, bambini in partenza, sui treni stracarichi di cui non si sa, ma ormai si intuisce, il destino.
Leggendo le Lettere si capisce chi era diventata, alla fine, la ragazza delle prime pagine del Diario. Che all’inizio del ’41 era una giovane donna anticipatrice, diremmo quasi, delle ragazze degli anni Settanta ; libera da tradizioni e fedi, desiderosa solo di vivere e capire e mettersi alla prova. Una che, quando Spier le dice che la sera lui prega, è tentata di domandargli, sbalordita e impertinente: «E cosa dice, quando prega?».
Ma sotto la vivacità una inquietudine rode Etty. Ne sono l’evidenza le poche righe che accennano a un figlio che rifiuta perchè «voglio risparmiargli il dolore. Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire». Abortire, dunque, perché la vita è male (benché la tragedia ebraica in atto rendesse realistica una simile visione).
Eppure nulla impedisce la metamorfosi. La Parola delle Scritture ha una parte forte in questo cammino interiore. LaPrima lettera ai Corinzi - il celebre brano sulla carità - opera in Etty misteriosamente: «come una verga da rabdomante che sferzava il fondo duro del mio cuore, facendone improvvisamente scaturire sorgenti nascoste. D’un tratto mi sono ritrovata inginocchiata e l’amore sprigionato scorreva di nuovo dentro di me...» (Un passo, per inciso, che nella sintesi Adelphi anni ’80 non compariva, benché certo non irrilevante per comprendere la Hillesum).
E mentre il cerchio attorno agli ebrei olandesi si chiude, e ciascuno cerca, come può, di salvarsi, la ragazza si inoltra per i sentieri dell’Antico Testamento, ma anche in Rilke, e nel Vangelo, che da ultimo cita ripetutamente. Ama Agostino, e c’è un’eco agostiniana quando scrive: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
E più si fa fitto il buio, più la Hillesum sente crescere, dentro, un segreto tesoro. Ne è meravigliata lei stessa: «Com’è strana la mia storia, la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi...».
Umanamente inconcepibile è il suo stare di fronte al male assoluto dell’Olocausto. Davanti alle madri disperate, ai vecchi balbettanti e smarriti che all’alba vengono imbarcati sui treni, la sua risposta è, prima, una inesausta preghiera; poi, nelle Lettere, concluderà: «Io non posso fare niente, io posso solo prendere il dolore su di me, e soffrire». (La Croce come istintivamente abbracciata).
Ci si può chiedere perché solo ora si arrivi alla edizione integrale italiana, e come mai una figura così grande sia ancora poco nota. Forse è perché, volontaria nel campo di Westerbork dove poi finirà rinchiusa, in una sincerità da grande cronista scriveva che anche tra i perseguitati si alza a volte un persecutore - come l’Oberdienstleiter ebreo, in stivaloni neri e stella gialla, che nelle Lettere sorveglia un treno in partenza? O forse perché a un certo moralismo cattolico del primo dopoguerra la "sregolatezza" giovanile di Etty non piaceva? Ma chi oggi legge il Diario integrale (800 pagine, tre volte la edizione anni ’80, e con un ricco apparato di note), e vede come quella giovane donna sia rinata, nel fondo dell’inferno, e come ostinatamente affermi che la vita è «comunque buona e degna di essere vissuta», chiude queste pagine e tace. Sbalordito e grato di quanto Dio possa trasformare gli uomini - se, semplicemente, lo cercano.
Fonte: Avvenire – articolo di Marina Corradi
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