DUCCIO DI BONINSEGNA, Discesa agli Inferi, 1310 ca.
7 aprile 2012
Sabato santo
ore 22.00
Veglia Pasquale
Può apparire paradossale parlare del sabato santo perché per i cristiani è un giorno contrassegnato dal silenzio, un giorno che potrebbe apparire “tempo morto”, svuotato di senso. Anche i vangeli tacciono su questo “grande sabato”: il racconto della passione di Gesù si arresta alla sera del venerdì, all’apparire delle prime luci del sabato e riprende solo con l’alba del primo giorno della settimana, il terzo giorno, appunto. Giorno vuoto, dunque? Nella tradizione cristiana occidentale, il sabato santo è l’unico giorno senza celebrazione eucaristica, l’unico giorno restato “aliturgico”, senza celebrazioni particolari: tacciono le campane, non ci sono fiammelle accese nelle chiese spoglie, né canti… Anche la preghiera dei cristiani si fa silenziosa ed è carica soprattutto di attesa: attesa di ciò che muterà profondamente ogni cosa, ogni storia. Certo, sappiamo bene che la Pasqua è un evento avvenuto ephápax , “una volta per tutte”, il 9 aprile dell’anno 30 della nostra era, sappiamo che Cristo ormai risorto non muore più, siamo consapevoli di non celebrare un mistero ciclico come facevano i pagani… E tuttavia siamo chiamati a vivere questo giorno cogliendone il messaggio proprio: lo viviamo nella fede che il Signore crocifisso è vivente in mezzo a noi ma, discernendo all’interno del triduo pasquale il secondo giorno come giorno di silenzio, di attesa, del non detto, noi assumiamo una dimensione che ci abita sempre e che alcune volte – nella vita nostra, o degli altri o di interi popoli – è la dimensione durevole, non momentanea, non passeggera.
Sabato santo, giorno dopo la morte, tempo in cui davanti ai discepoli c’era solo la fine della speranza, un’aporia, un vuoto su cui incombeva il non senso, l’insopportabile dolore, la lacerazione di una separazione definitiva, di una ferita mortale: Dov’è Dio? E’ questa la muta domanda del sabato santo. Dov’è quel Dio che era intervenuto al battesimo di Gesù, aprendo i cieli per dirgli: “Tu sei mio figlio, di te provo molta gioia” (Mc 1,11)? Dov’è quel Dio che era intervenuto sull’alto monte, nell’ora della trasfigurazione con Mosè ed Elia e aveva esclamato: “Ecco mio figlio, l’amato!” (Mc 9,7)? Nell’ora della croce Dio non è intervenuto, a tal punto che Gesù si è sentito abbandonato da lui e glielo ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Ecco, un giorno intero passa e non c’è intervento di Dio… Eppure Dio non ha abbandonato Gesù: se l’abbandono appare l’amara verità per i discepoli, Dio in realtà ha già chiamato a sé Gesù, anzi, lo ha già risuscitato nel suo Spirito santo e Gesù vivente è agli inferi ad annunciare anche là la liberazione. “Discese agli inferi” confessiamo nel Credo. Ecco ciò che nel nascondimento avviene al sabato santo: giorno vuoto, silenzioso per i discepoli e per gli uomini, ma giorno in cui il Padre – che “opera sempre” (cf. Gv …), come ha detto Gesù – attraverso di lui porta negli inferi la salvezza. Come Giona nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti (cf. Mt 12,40), così anche Gesù dalla croce fu deposto nella tomba e, da lì, discese ancora, agli inferi, allo sheol dove dimorano i morti.
Mistero grande, sul quale oggi la chiesa sembra preferire tacere, quasi fosse afona. Eppure i padri della chiesa, e soprattutto la liturgia antica, hanno voluto cantare anche questa “azione” di Gesù dopo la sua morte. In un’omelia attribuita a Epifanio sta scritto: “Oggi sulla terra c’è un silenzio grande: Il Signore è morto nella carne ed è disceso a scuotere il regno degli inferi. Va a cercare Adamo, il primo padre, come la pecorella smarrita. Il Signore scende e visita quelli che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte”. E un inno di Efrem il Siro così canta: “Colui che disse ad Adamo ‘Dove sei?’ è sceso agli inferi dietro a lui, l’ha trovato, l’ha chiamato e gli ha detto: ‘Vieni, tu che sei a mia immagine e somiglianza! Io sono disceso dove tu sei per riportarti alla tua terra promessa!’”. Gesù, disceso agli inferi con la sua morte – una morte diventata “atto”, una morte assunta e vissuta – ha distrutto la morte stessa in un mirabile combattimento, come ricorda anche la liturgia siriaca: “Tu, Signore Gesù, hai combattuto con la morte durante i tre giorni del tuo dimorare nella tomba, hai seminato la gioia e la speranza tra quelli che abitavano gli inferi”.
Così la discesa agli inferi diventa estensione della salvezza a tutto il cosmo, salvezza dell’essere umano nella sua interezza: Cristo scende nel cuore della terra, nel cuore della creazione, nelle zone infernali che abitano ogni uomo. Che ne è, dunque, degli inferi dopo la “visita” del Cristo glorioso? Cirillo di Alessandria afferma che questa predicazione di Cristo agli inferi – di cui parla l’apostolo Pietro: “messo a morte nella carne, ma reso vivente nello Spirito… andò ad annunciare la salvezza agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,18-19) – ha significato la spoliazione dell’inferno: “Subito Cristo, spogliando l’intero inferno e spalancandone le impenetrabili porte agli spiriti dei morti, vi lasciò il diavolo solo!”. Dov’è, o inferno, la tua vittoria?
Il cristiano oggi non dovrebbe dimenticare questo mistero del grande e santo sabato, vero preludio alla Pasqua ma anche lettura della discesa di Cristo nelle regioni infernali che abitano anche ogni cristiano, nonostante il suo desiderio di sequela di Gesù. Chi non riconosce in sé la presenza di questi inferi? Regioni non evangelizzate, territori di incredulità, luoghi dove Dio non c’è e nei quali ognuno di noi nulla può se non invocare la discesa di Cristo perché le evangelizzi, le illumini, le trasformi da regioni di morte assoggettate alla potenza del demonio in humus capace di germinare vita in forza della grazia. Così il sabato santo è come il tempo della gravidanza, è un crescere del tempo verso il parto, verso il trionfo della vita nuova: il suo silenzio non è mutismo ma tempo carico di energie e di vita.
Come non pensare al secolo che ci sta alle spalle come al secolo in cui il sabato santo è stata l’esperienza di molti credenti in Gesù e di altri uomini la cui fede solo Dio conosce e giudica? Nei campi di sterminio sotto il nazismo, nei gulag e nelle prigioni sovietiche, in tanti paesi in cui l’ideologia atea comunista ha ridato martiri alla chiesa, quale profondo sabato santo… Anni fa, in Cina ho incontrato un vescovo di quella chiesa ufficialmente non in comunione con Roma che in latino mi ha detto: “Noi viviamo il sabato santo, ma siamo in attesa della Pasqua: verrà! Dica al Santo Padre che lo amiamo!”. Sabato santo, Dio sembra assente, il male sembra prevalere, il dolore appare senza senso e Dio, dov’è? Sabato santo a volte anche per chi nel suo cammino di fede trova le tenebre, vede vacillare la propria fede, non riesce a nutrire speranza: giorno di insensibilità, in cui ogni fiducia sembra inaccessibile, troppo grande perché la si possa concepire. Sabato santo di molti malati, soprattutto quelli affetti dall’aids, legati a Cristo nella sua vergogna… Ma sabato santo anche come tempo in cui il sangue dei martiri e delle vittime cade come seme a terra per fecondarla in vista di un frutto abbondante, tempo in cui il disfacimento del nostro essere esteriore fa spazio alla crescita del nostro uomo interiore… Ognuno allora potrà dire del suo sabato santo: “Dio veramente era qui accanto a me, ma io non lo sapevo!” (Gen 28,16). Non c’è aurora di Pasqua senza sabato santo.
ENZO BIANCHI
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