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Richiesta di preghiere

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domenica 12 luglio 2015

Il Cardinal Giacomo Biffi è morto

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Giacomo Biffi è stato cardinale e arcivescovo emerito di Bologna. Ha insegnato Teologia Dogmatica presso la Facoltà di Teologia cli Milano. Fu, quindi, parroco prima a Legnano, poi a Milano, e dal 1975 al 1984 vescovo ausiliare di questa stessa città. Dal 1984 al 2003 è stato arcivescovo di Bologna.

Dal Corriere di Bologna - È morto all’età di 87 anni l’arcivescovo emerito di Bologna, Giacomo Biffi. E’ stato cardinale dal 1984 al 2003, quando lasciò per sopraggiunti limiti di età. Da tempo ricoverato a Villa Toniolo dove aveva subito un difficile intervento chirurgico con l’asportazione di una gamba, le sue condizioni di salute erano peggiorate giovedì scorso, poi un lieve miglioramento prima del crollo. Biffi si è spento alle 2,40 della scorsa notte. Aveva compiuto 87 anni lo scorso 13 giugno e recentemente aveva ricevuto anche una lettera di Papa Francesco: «Sono stato informato delle Sue condizioni di salute e desidero esprimerLe la mia profonda vicinanza in questo momento di sofferenza», aveva scritto Bergoglio. I funerali saranno celebrati martedì alle 10,30 nella cattedrale di San Pietro. Fino ad allora i fedeli potranno visitare la camera ardente in via Altabella.

Non ho avuto modo di vedere dal vivo il Cardinal Biffi, ma in questi ultimi anni ho letto con vero piacere degli opuscoletti che ha scritto per i fedeli della Chiesa Cattolica. Il primo di questi fu “La fortuna di appartenergli” e quel piccolissimo pamphlet mi ha dischiuso la vista su una persona eccezionale sotto tutti gli aspetti.

Vorrei qui riproporre alcuni brani dei libretti che ho letto e dei quali faccio tesoro.

Li dono anche a voi per un piccolo omaggio a questo grandissimo cardinale e cristiano.

La Fortuna di appartenergli

Avvertenza
Vi do una notizia un po’ riservata. Vi rivelo un segreto; ma, mi raccomando, resti tra noi. La notizia è questa: grande è la fortuna di noi credenti. Grande è la fortuna di chi è «cristiano»; cioè appartiene, sa di appartenere, vuole appartenere a Cristo.
Grande è la fortuna dei credenti in Cristo. Però non andate a dirlo agli altri: non la capirebbero. E potrebbero anche aversela a male: potrebbero magari scambiare per presunzione il nostro buon umore per la felice consapevolezza di quello che siamo; potrebbero addirittura giudicare arroganza la nostra riconoscenza verso Dio Padre che ci ha colmati di regali.
C’è perfino il rischio di essere giudicati intolleranti: intolleranti solo perché non ci riesce di omologarci — disciplinatamente e possibilmente con cuore contrito — alla cultura imperante; intolleranti solo perché non ci riesce di smarrirci, come sarebbe «politicamente corretto», nella generale confusione delle idee e dei comportamenti.

Credenti e creduloni
Coloro che si affidano a Cristo — che è «Luce da Luce», cioè il Logos sostanziale ed eterno di Dio — sono inoltre abbastanza difesi dalla tentazione di affidarsi a ciò che è inaffidabile. Anche questa è una fortuna non da poco.

E stato giustamente notato come il mondo che ha smarrito la fede non è che poi non creda più a niente; al contrario, è indotto a credere a tutto: crede agli oroscopi, che perciò non mancano mai nelle pagine dei giornali e delle riviste; crede ai gesti scaramantici, alla pubblicità, alle creme di bellezza; crede all’esistenza degli extraterrestri, al new age, alla metempsicosi; crede alle promesse elettorali, ai programmi politici, alle catechesi ideologiche che ogni giorno ci vengono inflitte dalla televisione. Crede a tutto, appunto.

Perciò la distinzione più adeguata tra gli uomini del nostro tempo parrebbe non tanto tra credenti e non credenti, quanto tra credenti e creduloni.

L’ABC della Fede

La Fede e la Salvezza - Premessa
C’è chi pensa che aver fede sia qualcosa di fortuito e, tutto sommato, di irrilevante (press’a poco come aver i capelli rossi o gli occhi grigi). Qualcuno è dell’avviso che il credere sia magari anche una fortuna, ma una fortuna del tutto casuale (come far soldi al “gratta e vinci”). I più comunque ritengono sia qualcosa di marginale nell’esistenza dell’uomo.
Gesù che è il solo maestro che non delude non è di questo parere. Egli mette in relazione la fede con la salvezza: per lui è dunque qualcosa di sostanziale, qualcosa di necessario se non si vuole che la nostra avventura umana finisca in un fallimento.
Non si può dunque parlare di fede, se insieme non si parla del fatto che abbiamo tutti bisogno di essere salvati. Da che cosa?
Salvati prima di tutto dall’insignificanza nostra e dell’universo: ha uno scopo la nostra venuta al mondo?
Salvati dall’indegnità morale che più o meno ci conta- mina tutti (“salvati dai nostri peccati”, come dice il linguaggio cristiano).
Salvati dalla prospettiva che la morte coincida con il nostro annientamento: prospettiva che già adesso vanificherebbe tutti i nostri atti, perché se viviamo per andare a finire nel niente viviamo già adesso per niente.
La fede ci salva da tutti questi guai.

L’atto di Fede

Premessa
Capita spesso di ascoltare nei discorsi abituali — sia dei credenti sia (e forse più spesso) dei non credenti — che si parli di «fede». A questo proposito, alcuni luoghi comuni più frequenti meritano di essere richiamati, come premessa alla nostra riflessione.

Una condizione fortuita?
L’opinione mondana più diffusa — pur quando non è ostile programmaticamente alla concezione cristiana — pensa all’atto di fede come a qualcosa di facoltativo, anzi di fortuito e di occasionale. Si dice: «Io non ho la fede» press’a poco come si dice: «Io non ho gli occhi azzurri» o «Io sono basso di statura». Anche quando sembra di avvertire una specie di nostalgia o di rimpianto, perché il credere è ritenuto un valore e una fortuna, l’atteggiamento mentale non cambia di molto: «Purtroppo io non ho la fede», è detto con lo stesso spirito con cui si può dire: «Purtroppo sono stonato», o: «Purtroppo non riesco in matematica»; quasi supponendo cioè che l’assenza della fede sia qualcosa che non dipenda da noi. Ma la fede citata in questi termini non è certo quella di cui ci ha parlato Gesù e di cui tratta la dottrina cattolica. Basterebbe ricordare la finale del vangelo di Marco: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16). Dove è chiaro che per Cristo l’atto di fede è tutt’altro che qualcosa di facoltativo: determina la nostra «salvezza definitiva»; ed è tutt’altro che fortuito e occasionale: dipende dalla decisione responsabile dell’uomo, il quale per il mancato raggiungimento della fede può essere accusato e condannato.

Un’alternativa alla ragione?
Anche più spesso si sente esprimere il convincimento che la fede sia un’alternativa alla ragione: chi ragiona (si ritiene) non ha bisogno di credere, e chi crede esce dall’ambito della razionalità. Anche in questo caso il vocabolo «fede» non ha niente in comune con la fede quale è pensata entro la concezione cristiana. Nella prospettiva dei discepoli del Signore Gesù degni di questo nome la fede è addirittura l’esercizio estremo e più alto della ragione. Sicché per noi l’alternativa al credere non è il ragionare: è piuttosto il rassegnarsi all’irrazionalità e all’ assurdo.- Si può ravvisare di ciò una piccola controprova storico-sociologica nel fatto che in un’umanità dove la fede si è illanguidita, non è che non si creda più a niente; si finisce piuttosto col credere un p0’ a tutto, anche alle proposte razionalmente meno fondate: si crede agli oroscopi, alla cartomanzia, alle previsioni degli indovini, agli imbonitori di nuovi culti senza saggezza, agli extraterrestri, alla pubblicità più improbabile; e purtroppo si arriva anche ad affidarsi alle ideologie più disumane e aberranti (come hanno dimostrato le multiformi tragedie ideologiche del secolo ventesimo).

Un «mistero» da non approfondire?
Ma anche i credenti non hanno di solito le idee molto chiare circa la loro fede. Si accontentano di accoglierla rispettosamente, ma senza indagare troppo sulla sua natura, la sua origine entro la vita dello spirito, le sue prerogative, i problemi che essa suscita. Ma in tal modo ci si espone al rischio di approdare, a proposito del credere, su posizioni errate o almeno ambigue e imprecise. Senza dire che l’omaggio più adeguato e più pertinente — oltre che più conforme alla nostra indole di incontentabili indagatori della realtà — che possiamo prestare alle verità che il Signore ci ha rivelato (tra le quali c’è la necessità del credere) sta proprio nel cercare di comprenderle per quel che ci riesce (ben sapendo che l’intelligibilità piena della Rivelazione divina potrà essere raggiunta soltanto nel Regno dei cieli).

Il “Cuore” dell’annuncio cristiano
Il cristianesimo prende inizio da un «fatto». È fatto avvenuto presumibilmente nella notte tra l’8 aprile dell’anno 30, e reso pubblico a partire dall’alba del «terzo giorno», dopo cioè il venerdì che visto la morte di Gesù e dopo il grande sabato quando di tutta la vicenda del profeta di Galilea restava soltanto un sepolcro sigillato e muto. Un fatto sorprendente e assolutamente inatteso: testimonianze a nostra disposizione concordano rilevare che i discepoli di Cristo hanno faticato non poco ad accettarlo. Le due giornate precedenti avevano distrutto radicalmente le nuove luci di verità palpiti di insolita speranza che erano stati suscitati nelle menti e nei cuori dal Nazareno. L’intera eccezionale esperienza, maturata negli anni di convivenza con lui, davanti alla sua tomba si era come azzerata. Certo, non è che in loro si fosse persa ogni memoria dello straordinario insegnamento ascoltato, dei e delle opere mirabili che avevano potuto vedere, soprattutto della personalità inimitabile di quel singolare Maestro. Ma erano solo ricordi: ricordi bellissimi ma ridotti a scarsi residui di una immensa illusione, come la poca cenere fredda di un gran fuoco, per una breve stagione e ora estinto. Solo quando quel gruppo di uomini delusi e avviliti si arrende all’evidenza e accoglie il «fatto sorprendente e inatteso», comincia l’avventura cristiana.

La Fortuna di appartenergli

Congedo
Con nostra comune soddisfazione, siamo arrivati alla fine. Ho cercato di proporvi con semplicità alcune riflessioni, al solo scopo di risvegliare un atteggiamento — che mi pare primario e doveroso nel cristiano consapevole — di gioia per tutto ciò che ci è stato donato e di gratitudine verso Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, che è l’unico Signore dell’universo, della storia, dei cuori, ed è il Salvatore di tutti gli uomini.

Mi piace congedarmi da voi, carissimi, prendendo da sant’Ambrogio le parole poste a conclusione di una sua lettera: «State in buona salute, figli miei, e continuate a servire il Signore, perché è un buon padrone» (Ep. 17,13: «Valete, filii, et servite Dominum, quia bonus dominus»).

Termino queste brevi riflessioni con una frase tratta da un’intervista del 1998:

“Intanto credo di poter dire, come Leon Bloy, che ho una grande curiosità, perché siccome sono più le cose che non si sanno, desidero andare a vedere direttamente la realtà. Se poi veramente la morte è l’incontro con Cristo, come io credo, … finalmente!! Io ho puntato la vita su di Lui e non so neanche di che colore abbia gli occhi! Insomma, è una soddisfazione poterlo incontrare.”

(Lezioni sull’aldilà – Rai 2 1998 http://goo.gl/CLCecZ)

 

 

 

Fonti:
La Fortuna di appartenergli (Edizioni Studio Domenicano)
L’ABC della fede (Edizioni Studio Domenicano)
Il “Cuore” dell’annuncio cristiano (Edizioni Elledici)
L’atto di Fede (Edizioni Elledici)

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