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sabato 14 settembre 2013

La parabola dei due fratelli (il figlio prodigo e il figlio rimasto a casa) e del padre buono (Lc 15,11-32)

Il figlio prodigo di Rembrandt

Dal Vangelo di Luca

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Il figliol prodigo di Murillo

 

La parabola dei due fratelli (il figlio prodigo e il figlio rimasto a casa) e del padre buono (Lc 15,11-32)


Questa, che è forse la più bella parabola di Gesù, è conosciuta con il nome di «parabola del figlio prodigo»; infatti, la figura del figlio prodigo è tratteggiata in modo così efficace e la sua sorte nel bene e nel male ci tocca talmente il cuore che non può non apparire il vero centro del racconto. La parabola, tuttavia, ha in realtà tre protagonisti. Joachim Jeremias e altri hanno proposto di chiamarla meglio «parabola del padre buono» — questi, difatti, sarebbe il vero centro del testo.

Pierre Grelot, invece, ha richiamato l’attenzione sulla figura del secondo fratello come elemento veramente essenziale ed è quindi dell’opinione — a mio avviso a ragione — che la denominazione più appropriata sarebbe «parabola dei due fratelli». Questo risulta anzitutto già dalla situazione a cui la parabola risponde e che Luca presenta così (15,ls): «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”». Qui incontriamo due gruppi, due «fratelli»: pubblicani e peccatori; farisei e dottori della Legge. Gesù risponde loro con tre parabole: la prima è quella delle 99 pecore rimaste a casa e di quella perduta, poi vi è quella della dramma perduta. Quindi inizia di nuovo e dice: «Un uomo aveva due figli» (15,11). Si tratta dunque di tutti e due.

Il Signore riprende in questo modo una tradizione che risale molto indietro: la tematica dei due fratelli attraversa tutto l’Antico Testamento, partendo da Caino e Abele, passando per Ismaele e Isacco, fino a Esaù e Giacobbe e si rispecchia in modo diverso ancora una volta nel comportamento degli undici figli di Giacobbe nei confronti di Giuseppe. Nella storia delle elezioni domina una sorprendente dialettica tra i due fratelli, una dialettica che nell’Antico Testamento resta come una domanda aperta. Gesù ha ripreso questa tematica in una nuova ora dell’agire storico di Dio e le ha dato un nuovo indirizzo. Nel Vangelo di Matteo si trova un testo sui due fratelli che presenta delle analogie con la nostra parabola: l’uno dichiara di voler fare la volontà del padre, ma non la compie; l’altro dice di no alla volontà del padre, ma in seguito si pente e fa poi quello che gli era stato chiesto (cfr. Mt 2 1,28-32). Anche qui si tratta del rapporto tra peccatori e farisei; anche qui il testo è ultimamente un invito a un nuovo sì a Dio che chiama.

Ma cerchiamo ora di seguire passo passo la parabola. C’è anzitutto la figura del figlio prodigo, ma già subito all’inizio vediamo anche la magnanimità del padre. Egli asseconda il desiderio del figlio più giovane di avere la sua parte del patrimonio e divide l’eredità. Concede libertà. Può ben immaginare che cosa farà il figlio più giovane, ma lo lascia andare per la sua strada.

Il figlio parte «per un paese lontano». I Padri hanno visto in questo soprattutto il discostarsi interiormente dal mondo del padre — dal mondo di Dio —, l’intima rottura della relazione, la grandezza dell’allontanamento da ciò che è proprio e da ciò che è autentico. Il figlio dilapida le sue sostanze. Vuole semplicemente godere. Vuole sfruttare la vita fino all’estremo, avere quella che ritiene la «vita in pienezza». Non vuole più sottostare ad alcun comandamento, ad alcuna autorità: cerca la libertà radicale; vuole vivere solo per se stesso, non sottoposto ad alcun’altra esigenza. Si gode la vita; si sente pienamente autonomo.

E difficile per noi vedere in ciò proprio lo spirito della moderna ribellione contro Dio e la Legge di Dio? L’abbandono di tutto ciò che finora era il fondamento portante, e la scelta di una libertà senza confini? La parola greca usata nella parabola per indicare il patrimonio sperperato ha nel linguaggio dei filosofi greci il significato di «sostanza», di natura Il figlio prodigo sperpera la sua natura, se stesso.

Alla fine è tutto consumato. Colui che è stato completamente libero ora diventa veramente servo un guardiano di porci che sarebbe felice di ricevere per cibo il mangime dei porci. L’uomo che intende la libertà come puro arbitrio di fare quello che si vuole e andare dove si vuole vive nella menzogna, perché, secondo la sua stessa natura, egli è parte di una reciprocità, la sua libertà è una libertà da dividere con gli altri; la sua stessa natura porta in sé disciplina e norma; identificarsi intimamente con queste, ecco la libertà. Così una falsa autonomia porta alla schiavitù: la storia nel frattempo ce l’ha mostrato in modo fin troppo evidente. Per gli ebrei il maiale è un animale impuro — il guardiano di porci è dunque l’espressione dell’estrema alienazione e dell’estremo immiserimento dell’uomo. L’uomo totalmente libero è diventato un misero schiavo.

A questo punto avviene la «svolta». Il figlio prodigo comprende di essere perduto. Comprende che a casa sua era un uomo libero e che i servi di suo padre sono più liberi di lui, che si era creduto totalmente libero. «Rientrò in se stesso» dice qui il Vangelo (15,17). E anche questa espressione, come è accaduto con quella del paese lontano, rimette in movimento la riflessione filosofica dei Padri: vivendo lontano da casa, lontano dalle sue origini — essi dicono — quest’uomo si era allontanato anche da se stesso. Viveva lontano dalla verità della sua esistenza.

Il suo ritorno, la sua «conversione», consiste nel fatto che di questo si rende conto, che si riconosce alienato, prende coscienza di esser andato veramente «in un paese estraneo» e che ora ritorna verso di sé. In se stesso, però, trova l’indicazione della via verso il padre, verso la libertà di «figlio». Le parole che si prepara per il ritorno ci permettono di conoscere la portata del pellegrinaggio interiore che egli ora compie. Sono espressione di un’esistenza in cammino, un’esistenza che attraverso tutti i deserti — ora ritorna «a casa», a se stesso e al padre. Egli è in viaggio verso la verità della sua esistenza e quindi «verso casa». Con questa interpretazione «esistenziale» del ritorno a casa i Padri ci spiegano contemporaneamente che cosa significhi «conversione», quali sofferenze e purificazioni interiori comprenda, e possiamo dire tranquillamente che con ciò hanno capito nel modo giusto l’essenza della parabola e ci aiutano a riconoscerne l’attualità.

Il padre vede il figlio «quando è ancora lontano» e gli va incontro. Ascolta la confessione del figlio e vede in essa il cammino interiore da lui percorso, vede che ha trovato la strada verso la vera libertà. Così non lo lascia neppure finire di parlare, lo abbraccia, lo bacia e fa preparare per lui un grande gioioso banchetto. E gioia perché il figlio che, già quando aveva abbandonato la casa paterna con le proprie sostanze, «era morto» e ora è tornato in vita, è risuscitato; «era perduto ed è stato ritrovato» (15,32).

I Padri della Chiesa hanno messo tutto il loro amore nell’interpretazione di questa scena. Il figlio perduto diventa per loro l’immagine dell’uomo in generale, l’«Adamo» che siamo tutti noi — quell’Adamo a cui Dio ora è andato incontro e lo ha accolto di nuovo nella sua casa. Nella parabola il padre dà ordine ai servitori di portare in fretta «il vestito primo». Per i Padri questo «vestito primo» è un’allusione all’abito perduto della grazia, con cui all’origine era rivestito l’uomo e che poi ha perso con il peccato. Ora questo «vestito primo» gli viene di nuovo donato — il vestito del figlio. Nella festa che viene preparata essi vedono un’immagine della festa della fede, l’Eucaristia festiva, nella quale si anticipa il banchetto eterno. Letteralmente secondo il testo greco, il fratello maggiore, quando torna a casa, sente «sinfonia e cori» — per i Padri di nuovo un’immagine della sinfonia della fede, che fa dell’essere cristiani una gioia e una festa.

Ma l’essenziale del testo ora non è senz’altro in questi dettagli: l’essenziale ora è senza dubbio la figura del padre. E comprensibile? Può ed è lecito a un padre agire così? Pierre Grelot ha fatto notare che Gesù si esprime qui veramente sulla base dell’Antico Testamento: l’immagine originale di questa visione di Dio Padre si trova in Osea (cfr. 11,1-9). Lì si parla prima dell’elezione di Israele e del suo tradimento: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi» (11,2). Ma Dio vede anche come questo popolo è smembrato, come la spada fa strage nelle sue città (cfr. 11,6). E ora gli accade esattamente quello che viene descritto nella nostra parabola: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? [...] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te...» (11,8ss). Poiché Dio è Dio, il Santo, agisce come nessun uomo potrebbe agire. Dio ha un cuore e questo cuore si rivolta per così dire contro se stesso. Incontriamo di nuovo qui, nel profeta come nel Vangelo, la parola sulla «compassione», espressa con l’immagine del grembo materno. Il cuore di Dio trasforma l’ira e muta la pena in perdono. A questo punto, per il cristiano sorge la domanda: dov’è qui il posto di Gesù Cristo? Nella parabola compare solo il Padre. E forse assente la cristologia in questa parabola? Agostino ha cercato di introdurre la cristologia, dove si dice che il padre abbracciò il figlio (cfr. 1,2O). «Il braccio del Padre è il Figlio», dice. E avrebbe potuto riferirsi a Ireneo, il quale definì il Figlio e lo Spirito come le due mani del Padre. «Il braccio del Padre è il Figlio» — quando ci posa questo braccio sulle spalle come «il suo dolce giogo», allora non è affatto un peso di cui ci carica, ma un gesto di amorosa accettazione. Il «giogo» di questo braccio non è un peso che dobbiamo sostenere, bensì un dono dell’amore che ci sostiene e fa di noi stessi dei figli. E un’interpretazione molto suggestiva, ma si tratta appunto di «allegoria», che va evidentemente oltre il testo.

Grelot ha trovato un’interpretazione che è conforme al testo e va ancora più a fondo. Fa notare che Gesù con questa parabola, come con quelle precedenti, giustifica la propria bontà nei confronti dei peccatori, la sua accoglienza dei peccatori con il comportamento del padre nella parabola. Con questo atteggiamento Gesù «diventa rivelazione vivente di Colui che egli chiamava suo Padre». Lo sguardo al contesto storico della parabola delinea quindi da sé una «cristologia implicita». «La sua passione e la sua risurrezione hanno accentuato questo aspetto delle cose: in che modo Dio ha manifestato il suo amore misericordioso verso i peccatori? Perché, “mentre noi eravamo ancora peccatori è morto per noi” (Rm 5,8) [...] Gesù non può in nessun modo entrare nel quadro narrativo della sua parabola, perché vive identificandosi con il Padre celeste, ricalcando il suo atteggiamento su quello del Padre. Ora, il Cristo risorto resta ugualmente, in questo punto, nella stessa situazione di Gesù di Nazaret durante il suo ministero» (p. 228s). Di fatto Gesù giustifica, in questa parabola, il suo comportamento riconducendolo a quello del Padre, identificandolo con Lui. Così, proprio attraverso la figura del padre, Cristo si trova al centro della parabola come attuazione concreta dell’agire paterno.

Ed ecco comparire il fratello maggiore. Torna a casa dal lavoro nei campi, sente che si fa festa, ne apprende il motivo e s’adira. Semplicemente non riesce a trovare giusto che a questo buono a nulla, che ha divorato tutte le sue sostanze — i beni del padre — con le prostitute, ora venga immediatamente regalata una festa splendida senza che venga messo alla prova, senza un periodo di penitenza. Ciò contraddice il suo senso della giustizia: una vita di lavoro, la sua, appare priva d’importanza di fronte al sudicio passato dell’altro. Dentro di lui monta l’amarezza: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» dice al padre «e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici» (15,29). Anche a lui è andato incontro il padre, e ora gli parla con benevolenza. Il fratello maggiore non sa nulla dei mutamenti e dei percorsi interiori dell’altro, della strada che l’ha portato tanto lontano, della sua caduta e del suo ritrovamento. Vede solo l’ingiustizia. E qui si evidenzia forse che, di nascosto, anche lui ha sognato una libertà senza limiti, che nella sua obbedienza ha accumulato
nell’intimo amarezza e non sa della grazia dell’essere a casa, della vera libertà che egli ha in quanto figlio. «Figlio, tu sei sempre con me» gli dice il padre «e tutto ciò che è mio è tuo» (1.5,31). Gli spiega in questo modo la grandezza dell’essere figlio. Sono le stesse parole con cui Gesù, nella preghiera sacerdotale, descrive il suo rapporto con il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10).
La parabola s’interrompe qui; non ci dice nulla della reazione del fratello maggiore. Né poteva essere altrimenti, perché a questo punto la parabola passa immediatamente alla realtà: con queste parole del padre, Gesù parla al cuore dei farisei e degli scribi che mormoravano, che si indignavano della bontà di Gesù nei confronti dei peccatori (cfr. 15,2). Ora diventa perfettamente chiaro che Gesù identifica la sua bontà verso i peccatori con la bontà del padre nella parabola e che tutte le parole messe sulla bocca del padre le dice Lui stesso alle persone pie. La parabola non racconta qualcosa di lontano, ma tratta di ciò che accade qui e adesso per mezzo di Lui. Cerca di conquistare il cuore dei suoi avversari. Li prega di entrare e di partecipare alla gioia in quest’ora del ritorno a casa e della riconciliazione. Queste parole restano nel Vangelo come un invito implorante. Paolo riprende questo invito implorante, quando scrive: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor5,20).

La parabola, pertanto, da un lato si colloca molto realisticamente nel punto della storia in cui Gesù l’ha raccontata; ma allo stesso tempo trascende il momento storico, poiché l’invito supplichevole di Dio continua. Ma a chi è diretta adesso? Molto in generale i Padri hanno riferito il tema dei due fratelli al rapporto tra ebrei e pagani. Per loro non è stato difficile riconoscere nel figlio dissoluto, che si era allontanato da Dio e da se stesso, il mondo del paganesimo, al quale Gesù ha aperto la porta verso la comunione con Dio nella grazia e per il quale celebra ora la festa del suo amore. Così non era neppure difficile riconoscere nel fratello rimasto a casa il popolo d’Israele che a ragione poteva dire di sé: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando». Proprio nella fedeltà alla Torah si manifesta la fedeltà di Israele e anche la sua immagine di Dio.
Questa applicazione agli ebrei non è ingiustificata, se la si lascia così come l’abbiamo trovata nel testo: come il delicato tentativo di Dio di persuadere Israele, un tentativo che sta completamente nelle mani di Dio. Rileviamo infatti doverosamente che il padre della parabola non solo non contesta la fedeltà del figlio maggiore, ma conferma espressamente la sua figliolanza: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». L’interpretazione sarebbe invece errata, se la si volesse trasformare in una condanna degli ebrei, cosa di cui nel testo non si parla affatto.

Se quindi è lecito considerare l’applicazione della parabola dei due fratelli a Israele e ai pagani come una dimensione implicita al testo, restano comunque ancora altre dimensioni. In Gesù il discorso sul fratello maggiore, appunto, non ha semplicemente di mira Israele (anche i peccatori che si recavano da Lui erano ebrei), ma il pericolo specifico dei pii, di coloro che con Dio sono in regola, «en règle», come si esprime Grelot (p. 229) mettendo in risalto la breve frase: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Per loro, Dio è soprattutto Legge; si vedono in rapporto giuridico con Dio e sotto questo aspetto sono alla pari con Lui. Ma Dio è più grande: devono convertirsi dal Dio- Legge al Dio più grande, al Dio dell’amore. Allora non abbandoneranno la loro obbedienza, ma essa verrà da fonti più profonde e perciò sarà più grande, più sincera e pura, ma soprattutto anche più umile.

Aggiungiamo, come ulteriore punto di vista, una cosa già accennata prima: nell’amarezza di fronte alla bontà di Dio si manifesta un’amarezza interiore per l’obbedienza prestata, che denuncia i limiti di tale obbedienza: dentro di sé, in fondo, avrebbero gradito anch’essi di andarsene verso la grande libertà. C’è un’invidia nascosta per quello che l’altro ha potuto permettersi. Non hanno percorso il cammino che ha purificato il fratello più giovane e gli ha fatto conoscere che cosa significa la libertà, che cosa significa essere figlio. Gestiscono la loro libertà, in definitiva, come una schiavitù e non sono maturi fino al vero essere di figli. Anche loro hanno ancora bisogno di un cammino; possono trovano se semplicemente danno ragione a Dio, accettando la sua festa come fosse anche la loro. In questo modo, con la parabola il Padre attraverso Cristo parla a noi che siamo rimasti a casa, perché anche noi ci convertiamo per davvero e gioiamo della nostra fede.

Fonte: dal Gesù di Nazaret – Benedetto XVI

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Il ritorno del figliol prodigo di Tissot

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